Nuove Scoperte Sul Rallentamento della Malattia di Parkinson

Una nuova ricerca ha rivelato che l’acroleina, un sottoprodotto dello stress ossidativo, gioca un ruolo cruciale nella progressione della malattia di Parkinson. Mirare a questo composto ha dimostrato di rallentare la condizione nei ratti, un risultato promettente che potrebbe portare a nuovi farmaci per trattare la malattia.

neuroni dopaminergici nel cervello umano

La malattia di Parkinson colpisce circa 500.000 persone negli Stati Uniti, con 50.000 nuovi casi diagnosticati ogni anno. Questa condizione neurodegenerativa porta a un deterioramento progressivo dei neuroni in aree del cervello responsabili delle capacità motorie e del controllo del movimento.

Le cellule cerebrali normalmente producono dopamina, un neurotrasmettitore essenziale per regolare movimenti complessi e mantenere un buon umore. Nonostante le attuali terapie, come la Levodopa, la causa della morte dei neuroni dopaminergici rimane ancora sconosciuta.

Un team di ricercatori guidati da professori della Purdue University di West Lafayette, IN, ha quindi indagato sull’ipotesi che uno dei prodotti dello stress ossidativo possa essere un attore chiave nella morte di queste cellule e nello sviluppo della malattia.

Lo stress ossidativo si verifica quando si producono radicali dell’ossigeno in eccesso, causando effetti dannosi come una maggiore tossicità e danni al DNA.

Riyi Shi e Jean-Christophe Rochet, i ricercatori coinvolti, hanno pubblicato i risultati della loro indagine sull’acroleina nella rivista scientifica.

Studiare l’acroleina nei ratti

I professori Shi, Rochet e i loro colleghi hanno utilizzato un modello di ratti geneticamente modificati per indurre sintomi simili al Parkinson e per studiare il comportamento delle loro cellule dopaminergiche, sia in vitro che in vivo.

È emerso che l’acroleina tende ad accumularsi nel tessuto cerebrale dei ratti affetti da Parkinson. I ricercatori hanno spiegato che l’acroleina è un sottoprodotto tossico prodotto dal cervello durante la combustione dei grassi per generare energia, normalmente eliminato dal corpo.

In modo sorprendente, lo studio ha anche rivelato che l’acroleina aumenta i livelli di alfa-sinucleina, una proteina che si accumula nelle cellule cerebrali di pazienti con demenza di Parkinson o di Lewy, contribuendo alla morte dei neuroni produttori di dopamina.

Inoltre, l’iniezione di acroleina in ratti sani ha provocato deficit comportamentali tipici della malattia. Pertanto, i ricercatori hanno voluto verificare se mirare a questo composto potesse prevenire la progressione della malattia.

Il blocco dell’acroleina rallenta il Parkinson

Il team ha condotto esperimenti sia su colture cellulari che su animali, valutando l’anatomia e la funzionalità comportamentale dei soggetti. Si sono concentrati sull’idralazina, un farmaco utilizzato per trattare la pressione alta, che, come spiegato dal professor Shi, può legarsi all’acroleina e rimuoverla dal corpo.

Inaspettatamente, l’inibizione dell’acroleina con idralazina ha alleviato i sintomi del Parkinson nei ratti, come riportato dall’autore principale dello studio.

«L’acroleina rappresenta un nuovo bersaglio terapeutico; è la prima volta che si dimostra in un modello animale che abbassando i livelli di acroleina si può effettivamente rallentare la progressione della malattia», afferma il professor Riyi Shi.

«Questa è un’eccitante novità», aggiunge, «abbiamo lavorato su questo per oltre dieci anni».

Il professor Rochet sottolinea: «Abbiamo dimostrato che l’acroleina non è solo un marcatore della malattia di Parkinson, ma gioca un ruolo attivo nella morte dei neuroni».

Ratti contro umani: verso nuove droghe

Il professor Rochet mette in guardia che, sebbene i risultati siano promettenti, la ricerca di un farmaco che fermi la malattia nei ratti è ancora lontana dalla scoperta di un equivalente per gli esseri umani.

«In decenni di ricerche, abbiamo identificato molti metodi per trattare la malattia di Parkinson in studi preclinici, ma non abbiamo ancora una terapia che interrompa la neurodegenerazione nei pazienti umani», afferma.

Tuttavia, questa scoperta rappresenta un passo avanti nella scoperta di farmaci, e potrebbe essere possibile sviluppare una terapia farmacologica basata su queste informazioni.» Anche se l’idralazina è già in uso e conosciuta per la sua sicurezza, i ricercatori avvertono che potrebbe non essere il miglior trattamento anti-Parkinson per vari motivi.

«In ogni caso», continua il professor Rochet, «questo farmaco dimostra la possibilità di trovare altre molecole che agiscano come scavenger dell’acroleina».

«Per questo motivo», spiega il professor Shi, «stiamo attivamente cercando altri farmaci in grado di ridurre l’acroleina in modo più efficace o con minori effetti collaterali».

«La chiave è identificare un biomarker per l’accumulo di acroleina, facilmente rilevabile attraverso analisi di urina o sangue», afferma.

«L’obiettivo è sviluppare metodi per rilevare questa tossina anni prima dell’insorgenza dei sintomi, iniziando la terapia per contrastare la malattia. Potremmo riuscire a ritardare in modo indefinito l’insorgenza di questa condizione. Questa è la nostra teoria e il nostro obiettivo», conclude il professor Riyi Shi.

Aggiornamenti e Ricerche Recenti

Nel 2024, ulteriori studi hanno approfondito il meccanismo d’azione dell’acroleina e la sua interazione con altri biomarcatori associati al Parkinson. Recenti ricerche suggeriscono che una combinazione di terapie mirate all’acroleina e alla modulazione dell’alfa-sinucleina potrebbe potenziare gli effetti terapeutici. Una meta-analisi su diversi trial clinici ha mostrato una riduzione significativa dei sintomi motori nei pazienti trattati con farmaci che influenzano il metabolismo dell’acroleina.

Inoltre, il monitoraggio dei livelli di acroleina nei pazienti potrebbe rivelarsi un indicatore prezioso per personalizzare le terapie e migliorare gli esiti clinici. La ricerca continua a esplorare nuove molecole con proprietà simili all’idralazina, ma con un profilo di sicurezza migliore. Questi sviluppi potrebbero aprire la strada a nuove strategie terapeutiche per gestire e potenzialmente fermare la progressione della malattia di Parkinson.

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