La depressione resistente al trattamento (TRD) è una condizione complessa che può derivare da un’adeguata somministrazione di antidepressivi o dalla tolleranza verso di essi. Tuttavia, ci sono indicazioni che il trattamento antidepressivo stesso possa contribuire a una sindrome depressiva cronica. Questo studio analizza un caso di sospensione antidepressiva in un paziente con TRD, un uomo bianco di 67 anni con esordio della malattia depressiva maggiore all’età di 45 anni. Era omozigote per la forma breve del trasportatore della serotonina. Ha ricevuto trattamenti fino all’età di 59 anni e ha continuato a utilizzare antidepressivi fino ai 67 anni. Negli ultimi due anni, ha sperimentato una depressione persistente senza alcun sollievo dai farmaci o da due trattamenti elettroconvulsivi. Al momento della valutazione, i suoi farmaci includevano paroxetina 10 mg al giorno, venlafaxina 75 mg al giorno e clonazepam 3 mg al giorno. Il suo punteggio di depressione Hamilton a 17 voci era di 22. Nei sei mesi successivi, è stato avviato su bupropione e ha gradualmente ridotto tutti gli antidepressivi, incluso il bupropione, con un punteggio di Hamilton che è sceso a 18. Tuttavia, il paziente non era soddisfatto dei suoi progressi e cercò un’altra opinione per riprendere gli antidepressivi. Un anno dopo, nonostante fosse in trattamento con duloxetina 60 mg al giorno, continuava a lamentarsi di una depressione persistente.
Un potenziale effetto prodepressivo degli antidepressivi è stato precedentemente suggerito. Fava è stato il primo a ipotizzare che un meccanismo neurobiochimico correlato agli antidepressivi potrebbe aumentare la vulnerabilità alla depressione, contribuendo così a un peggioramento dell’esito a lungo termine della malattia. La comprensione dei potenziali meccanismi di questo fenomeno può derivare dalle osservazioni sulla forma breve del trasportatore della serotonina (5HTTR). I pazienti con la forma breve del 5HTTR e un’esposizione prolungata agli antidepressivi potrebbero essere particolarmente vulnerabili al peggioramento legato agli antidepressivi. In altre parole, un’esposizione prolungata agli antidepressivi può indurre cambiamenti neuroplastici che portano alla genesi di sintomi disforici indotti da antidepressivi. Gli studiosi propongono il termine «disforia tardiva» per descrivere questo fenomeno, proponendo criteri diagnostici specifici. La riduzione o l’interruzione dell’antidepressivo potrebbe invertire lo stato disforico, ma è importante notare che la sospensione degli antidepressivi potrebbe non fornire un sollievo immediato. Infatti, è probabile che i sintomi transitori di astinenza si verifichino nelle prime 2-4 settimane successive alla sospensione o alla riduzione progressiva dell’antidepressivo. Tuttavia, dopo un periodo prolungato di astinenza, si può osservare un graduale ritorno alla baseline del paziente.
Nuove Prospettive sulla Disforia Tardiva
Recenti studi suggeriscono che la disforia tardiva potrebbe non essere un fenomeno isolato, ma piuttosto un segnale di allerta per i clinici. I ricercatori hanno identificato un legame tra l’uso prolungato di antidepressivi e cambiamenti neurochimici che possono predisporre i pazienti a nuovi episodi di depressione. Ad esempio, uno studio recente ha mostrato che il 30% dei pazienti in trattamento prolungato ha riportato sintomi disforici, suggerendo che una rivalutazione della terapia antidepressiva sia fondamentale. È cruciale considerare alternative terapeutiche, come la psicoterapia o approcci integrativi, per gestire la disforia tardiva. Inoltre, la genetica gioca un ruolo significativo: i pazienti con specifiche varianti genetiche potrebbero essere a maggior rischio. Pertanto, è essenziale personalizzare i trattamenti per rispondere alle esigenze individuali dei pazienti e monitorare attentamente gli effetti collaterali nel tempo. Questa consapevolezza potrebbe migliorare significativamente la qualità della vita dei pazienti affetti da TRD.
Fonte: Journal of Psychotherapy and Psychosomatics, Fondazione AlphaGalileo.